Falso negativo e responsabilità dei medici.

Eseguito il bitest con esito negativo, veniva comunicato ad una gestante che il rischio che il feto fosse affetto da sindrome di Down era pari a una possibilità su 5.877. Nonostante la bassa probabilità il bambino nasceva affetto da Trisomia 21, o appunto sindrome di Down. I genitori, sicuramente per disperazione e rabbia, additavano la responsabilità dei medici, i quali a loro dire avrebbero mal eseguito il bitest, o non lo avrebbero saputo leggere. Il Tribunale di Catania in primo grado dava loro ragione e accordava un elevato risarcimento che l’assicuratore dell’ospedale, rigettata (erroneamente) la sospensiva, pagava. Il medesimo appellava tuttavia la sentenza, nel tentativo di far comprendere che il bitest non ha valenza diagnostica, ma solo statistica: non solo quindi esiste una possibilità, seppur con probabilità bassa, che sia presente la sindrome cromosomica oggetto di accertamento anche se l’esito del test è negativo, ma è ben possibile che anche un test correttamente eseguito dia falsi positivi o falsi negativi. Lo scopo del bitest non è quello di fornire una diagnosi certa, bensì quello di evitare test diagnostici invasivi (amniocentesi e simili) che possono porre la gestante a rischio di aborto. La Corte di Appello di Catania, con sentenza del 05-06-2023, ha accolto l’impugnazione della compagnia di assicurazione, affermando che «se pure è ben possibile, come è ovvio, contestare alla struttura che lo ha eseguito la erronea modalità di esecuzione del Bitest con tutte le conseguenze, in termini di mancata sottoposizione ad ulteriori esami e quindi, in ultima analisi, di nascita indesiderata, di certo ciò non può avvenire sulla base del solo dato, a valle, secondo cui il test ha fallito, atteso che la mancata individuazione della malformazione, come detto, non è necessariamente conseguente alla erronea esecuzione del test bensì è, in una significativa percentuale di casi, consustanziale al test stesso». La compagnia è stata assistita da D&D Avvocati Associati, con un team composto dai nostri fondatori Grazia D’Aiello e Nicola de Luca. Unica nota amara: appena un anno e mezzo prima il medesimo collegio che ha ribaltato la sentenza di primo grado aveva rigettato la sospensiva, affermando che non sussiste il periculum in mora, non essendo provato che un risarcimento riconosciuto a persone fisiche non abbienti non possa essere successivamente recuperato. Ebbene, il giorno stesso della pubblicazione della sentenza di secondo grado gli appellati soccombenti hanno dichiarato di avere consumato almeno la metà del risarcimento e di non avere mezzi per restituirlo. C’è da sperare che la giurisprudenza in futuro, data anche la modifica dell’art. 283 c.p.c., voglia effettuare un esame più approfondito in sede cautelare: non basta appendere al muro la sentenza favorevole.

Falso negativo e responsabilità dei medici.